Intervista allo chef-imprenditore Feto Alisani
Quella di Feto Alisani è una personalità dirompente, instancabile e frizzante, che comunica energia e voglia di puntare continuamente a nuovi traguardi: numerosi sono gli obiettivi già raggiunti, tra i quali si annovera anche la creazione della Royal Luxury Gourmet, società di consulenza per alberghi e servizi di ristorazione. Di fermarsi non se ne parla, anzi: all’orizzonte ci sono già nuovi progetti da seguire, come d’altronde è normale aspettarsi da un settore dinamico qual è quello dell’Ho.Re.Ca.
«Essere allo stesso tempo uno chef e un imprenditore non è certo facile. Rivestendo entrambi i ruoli, però, si ha una prospettiva più ampia e si è in grado di gestire con più efficienza un’azienda di questo tipo: dal food cost al personale, dalla costruzione del menu al superamento delle criticità di tutti i giorni. Io che vivo in prima persona la cucina mi rendo conto di come funziona la brigata, delle variazioni da apportare ai prezzi per seguire il mercato, mi interrogo sull’opportunità di fare nuovi investimenti e resto sempre sul pezzo, cosa che un industriale non riesce a fare allo stesso modo», spiega Alisani.
«Quali sono le sfide più grandi con cui fa i conti l’imprenditore-albergatore, al presente?»
«Una delle più pressanti è la ricerca del personale, che oggi sembra essere impossibile da trovare. Molti riducono questa problematica ad una mera questione di retribuzione, ma purtroppo non è affatto così. I miei chef costano dai 4-5 ai 7.000 euro al mese, ma nonostante il compenso la prima cosa che viene richiesta è uno specifico giorno libero, magari nel weekend, la riduzione delle ore del turno, a fronte di un impegno che non arriva ad uno standard minimo. Bisognerebbe preoccuparsi prima di ciò che si riesce a dare e poi avanzare richieste, non il contrario.
Un elemento da considerare in questo discorso è anche quello del food cost: se uno chef mi costa così tanto, dovrò gestire i suoi piatti applicando un ricarico più elevato. Il cliente finale non paga soltanto la materia prima, ma anche il lavoro di chi l’ha processata e messa in tavola; quel valore dev’essere commisurato ad una certa aspettativa, altrimenti i primi a rimetterci saranno gli ospiti, i consumatori, ed in seconda battuta il titolare del servizio. Un capopartita può arrivare a costare 2.500 euro, degli chef abbiamo già parlato, ma non ci sono solo due figure in cucina e in sala. I menu non riportano in modo trasparente questi investimenti e questo genera incomprensioni che portano a criticare i prezzi delle varie portate, come se non avessero una precisa logica».
«Ponendo che si riesca a trovare un aspirante dipendente, come lo si valuta? Che caratteristiche deve avere per essere assunto e lavorare con profitto nel settore?»
«Dal mio punto di vista il curriculum vale poco o niente. Sulla carta si possono scrivere tante belle cose non vere: nella pratica, invece, si mostra di che cosa si è capaci veramente. È l’azione sul campo a mostrarmi le qualità di un leader, soprattutto se si parla di uno chef, di una figura di coordinamento che ha dei sottoposti e dev’essere in grado di fargli dare il massimo per raggiungere un risultato.
Ritengo che per ottenere una figura con queste qualità sia indispensabile la formazione, nella quale mi impegno anche io: proprio due mesi fa al Circeo ho insegnato ad un gruppo di ragazzi. I giovani cuochi non possono avere il solo modello di Masterchef: è irrealistico per una persona all’inizio della propria carriera paragonarsi alle star del teleschermo. Penso sia assurdo che un ragazzo arrivi in cucina senza saper fare un fondo bruno, un sugo d’arrosto, la besciamella (!) e mi descriva invece complicati processi di sferificazione. Le basi vengono prima della cucina molecolare, e spesso faccio una semplice domanda a chi arriva: per quanto deve bollire un uovo? Moltissimi non ne hanno idea. Mi dispiace non riescano a capire che saranno le loro esperienze di vita a portali a creare qualcosa di elaborato, senza che sia per forza un piatto ripreso da Adrià».
«Pensi che la responsabilità di queste mancanze stia anche nel sistema scolastico?»
«Non è tanto la scuola il problema, quanto piuttosto le motivazioni con cui la si sceglie: nel mio caso, mio padre Serafino mi ha indirizzato a frequentare l’alberghiero, facendomi scoprire la mia strada.
L’istituto alberghiero è troppo spesso percepito come un percorso alternativo, da intraprendere quando manchino le competenze per andare altrove. Non dev’essere così. La scelta di questa scuola deve essere fatta consapevolmente, con passione e dedizione, non per ripiego! Molti pensano non ci sia da studiare: al contrario. Nel mio libro, “Chef Alisani e la sua Odissea”, racconto di come la passione si trasformi in grande professionalità, e si ritrovi nella soddisfazione di vedere i propri piatti apprezzati dai clienti: a livelli importanti non si può sbagliare e la pressione, gli oneri, si fanno sentire. Se non c’è il motore della forza di volontà e dell’amore per ciò che si realizza, si crolla, così come se si rimane da soli a dare il 100%».
«Quale pensi sia il futuro del mondo della ristorazione, con queste premesse?»
«Credo si assisterà allo stesso fenomeno che si vede nella crescita del gap tra le classi sociali. Ci sarà un divario sempre maggiore tra pochi ristoranti di lusso e molti fast food, dunque da un lato una ristorazione d’elite, di fascia alta, e dall’altro gli asporti, le hamburgerie, i delivery. Nel mezzo, osterie e trattorie di fascia media faranno sempre più fatica a sopravvivere, nonostante siano il cuore della ristorazione. Noi abbiamo la fortuna di vivere in un posto privilegiato, nella culla della buona cucina, tra panorami che non hanno eguali al mondo: dovremmo proteggere le nostre risorse e non invidiare nulla all’estero, ma tutelare quella che è la nostra ricchezza. Anche per questo il mio prossimo progetto consiste nell’apertura di un B&B in provincia di Bergamo.
Negli altri paesi va di moda il cosiddetto italian sounding, ma non basta chiamare un ristorante “Da Luigi” per renderlo italiano, così come non è sufficiente appiccicare il nome di “carbonara” ad una pasta per realizzare una ricetta storica del nostro territorio! Dovremmo fare attenzione anche a ciò che succede oltreconfine e far capire in che cosa consista davvero la nostra cucina».
«Un’ultima battuta sull’Alisani Bistrò, per descriverlo ai nostri lettori e consigliare un piatto in menu»
«I clienti che passano al bistrò mi dicono spesso che per loro sedersi a tavola è stato come vivere una breve vacanza. Voglio che il mio locale sia proprio questo: un luogo dove potersi riposare, rilassare e dove poter gustare cibi selezionati, come i nostri pregiati tagli tomahawk serviti su una griglia riscaldata.
Un consiglio vegetariano invece potrebbero essere i nostri gnocchi alla zucca con salsa ai tre pomodorini, mozzarella di bufala e basilico. Potrei usare l’aggettivo “gourmet” per definire la mia cucina, a patto che la parola significhi rispetto delle materie prime, studio, approfondimento e attenzione nella preparazione delle pietanze, tutti elementi che servono a far star bene le persone, in fin dei conti. Amo questo lavoro, e senza non saprei cosa fare: spero di riuscire a trasmettere quello che mi dà a chiunque visiti il bistrò».
Intervista a cura di Chiara Tomasella