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Intervista a Renato Rizzardi, chef del ristorante “La Locanda di Piero”

Ci troviamo a Montecchio Precalcino, piccolo comune vicentino noto per ospitare all’interno dei suoi confini la villa palladiana Forni-Cerato. A meno di dieci minuti di distanza a piedi dall’edificio cinquecentesco, in quella che all’apparenza potrebbe sembrare una casa come le altre, sorge il ristorante La Locanda di Piero, gestito da ormai trent’anni dall’operosa maestria del suo patron Renato Rizzardi.

Nell’intervista odierna conosceremo più da vicino Renato, cuoco di cui v’invitiamo a scoprire i piatti e l’accoglienza recandovi personalmente a Montecchio, al numero 34 di Via Roma.

«Ogni storia professionale ha un punto di partenza nelle passioni individuali di ciascuno di noi: a volte sin da piccoli coltiviamo hobby e talenti che svilupperemo nella nostra carriera lavorativa, a volte scopriamo più avanti nel tempo cosa ci riesce meglio. Tu quando hai iniziato ad appassionarti alla buona cucina?»

«Sai, questa è una domanda che faccio molto spesso ai ragazzi a cui insegno il mestiere qui alla Locanda. Spesso mi raccontano che hanno scelto di frequentare l’alberghiero perché si sono appassionati alla cucina guardando i genitori o i numerosissimi programmi televisivi che al giorno d’oggi parlano di questo argomento: per quanto fondamentale possa essere, però, l’attività di osservare da spettatori passivi la creazione di una pietanza non è altro che il primo, timido passo verso la professione di chef. Aiutare in cucina, leggere libri di ricette, impegnarsi in prima persona anche tra le mura domestiche non è secondario: chiunque può assaggiare piatti ben riusciti, ma prepararli è un’altra storia.

Io ho il diploma di geometra, il consiglio dei miei insegnanti è stato quello di studiare ingegneria navale all’università. Ho deciso contro il loro parere e quello dei miei familiari di percorrere un’altra strada: all’epoca non era considerato gratificante passare il proprio tempo ai fornelli, dopotutto, ed era dunque normale desiderare altro per i propri figli. Oggi la cucina viene invece vista come una chiave per la notorietà, sull’onda di Masterchef o altri format simili. La realtà, tuttavia, è ben diversa».

«Quali caratteristiche dovrebbe possedere un aspirante cuoco per avere qualche chance di proseguire la sua carriera?»

«Prima di tutto, la concretezza. La volontà di sporcarsi le mani e di saper anche pulire, di iniziare con le piccole mansioni senza ritenerle svilenti, di informarsi continuamente, senza supponenza o presunzione: dopo tanti anni, io mi sento ancora uno stagista, amplio le mie conoscenze ogni volta che ne ho l’occasione. In un ragazzo è importante trovare la stessa curiosità, unita alla costanza e alla continua pratica.

Lavorare in questo campo comporta dei sacrifici non indifferenti, non è affatto una professione leggera e spensierata. Bisogna avere un’energia interiore ben vivace per andare oltre la semplice “infatuazione” per il mestiere, studiare lingue, management, contabilità, per portare ad alto livello le proprie competenze».

«Ci sono stati momenti in cui lo stress e il peso dei periodi di crisi ti hanno fatto demordere?»

«Sicuramente anche il passato recente non è stato un momento roseo, tra la pandemia e l’attuale guerra, con le ripercussioni sull’energia che tutti conosciamo. Bisogna notare, però, che i lati negativi che comportano queste congiunture storiche sono legati all’attività del ristoratore, dello chef imprenditore, non del cuoco in sé e per sé: occorre distinguere i due aspetti per giudicare a che cosa si deve l’eventuale burn out. Per quanto mi riguarda, la cucina intesa in senso stretto non mi ha mai portato a stare male, ho sempre conservato l’entusiasmo e penso proprio che lo manterrò anche in futuro, al di là delle problematiche che ci saranno da affrontare».

«Hai citato il Covid e il conflitto in Ucraina. Pensi che anche il cambiamento climatico costituisca una problematica impattante sul tuo lavoro?»

«Ne vedo gli effetti sull’orto della Locanda. Il nostro menu segue la stagionalità, ma i ritmi della vegetazione non sono gli stessi di qualche decennio fa: quest’anno il raccolto non è stato positivo, sapere che è una situazione destinata a peggiorare non conforta affatto. Non di meno, credo che occorra conservare l’ottimismo e dare il massimo, anche facendo attenzione agli sprechi e all’utilizzo delle risorse: per fortuna qui in Italia la cultura del risparmio è ancora ben viva. Avendo lavorato in America [al ristorante Donatello di San Francisco, California – ndr], posso dire che lì non si ragiona allo stesso modo, e che siamo fortunati ad avere questa tradizione».

«Per concludere la nostra conversazione, uno spunto di lettura per chi volesse approfondire il tuo lavoro alla Locanda: ci vuoi dire due parole sul libro in cui tu e il tuo maestro di sala Sergio Olivetti avete racchiuso i primi venticinque anni d’attività del locale?»

«Moto PerpetuoAlla ricerca del piatto perfetto racconta la volontà instancabile di reinventarsi, sperimentare e sorridere al domani, una volontà che devo dire mi accompagna tutt’ora. In quest’autobiografia ricapitolo il percorso che mi ha portato a costruire questa realtà, che sognavo da quando avevo quattordici anni: un’oasi di calma e serenità in vista dell’Altopiano di Asiago, dove accogliere con ospitalità i visitatori e sentirmi appagato della semplicità di questo contorno».

 

Intervista a cura di Chiara Tomasella

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